La sua voce cristallina si è fatta apprezzare prima con i Ginger Ale, poi quale stabile interprete femminile dei brani di Piano Magic, quindi nella multiforme eleganza del suo progetto personale Klima. Angèle David-Guillou ha adesso aperto un nuovo personalissimo capitolo della sua carriera, pubblicando per la prima volta un disco a proprio nome, “Kourouma“, nel quale la sua voce lascia il ruolo di protagonista al pianoforte. Ecco come racconta la sua storia e i motivi di quest’ultima trasformazione.
Per la prima volta, hai scelto di presentare il tuo nuovo disco, “Kourouma”, sotto il tuo nome e cognome: è perché lo senti come lavoro molto personale o ci sono altre motivazioni?
Mi è stato chiaro fin dall’inizio che questo non sarebbe stato un disco di Klima, perché non ho cominciato a scrivere canzoni, bensì qualcosa di molto più libero e strumentale. Per molti versi, realizzare un disco quasi interamente strumentale si è rivelato essere una questione molto più personale di qualunque cosa abbia fatto in precedenza. Capisco che questo possa apparire sorprendente, perché cantare dovrebbe essere la forma di espressione più personale, ma di fatto per me, in questo momento, il fatto di non cantare, di non nascondermi dietro la mia voce rappresenta qualcosa di estremamente personale e autentico. Per un po’ ho pensato di utilizzare un’altra denominazione, ma alla fine mi sono detta che avrei potuto semplicemente usare il mio nome e cognome.
“Kourouma” è anche il tuo lavoro più essenziale, visto che tutto ruota intorno al pianoforte. È la prima volta che “scopri” lo strumento oppure hai avuto una formazione musicale classica?
Ho avuto una formazione musicale classica dai cinque anni ai quindici ho in quel modo imparato a suonare il pianoforte. Poi, a quindici anni, sono entrata per la prima volta in una band e da lì in poi ho fatto di tutto per dimenticare quello che avevo imparato a scuola di musica, e credo di esserci riuscita molto bene!
Quattro anni fa ho acquistato un pianoforte perché volevo imparare nuovamente a suonarlo e perché sentivo la mancanza dello strumento, infatti l’ho riscoperto e me ne sono innamorata: è qualcosa di magico avere a casa un pianoforte, non c’è paragone con le chitarre. È come uno strumento conviviale, che “abita” il luogo con te.
A un livello elementare, ho riscoperto che amo suonare il pianoforte e soprattutto ho trovato coinvolgente la sensazione che averlo sotto le mani ti trasmette. Dopo di che, ho cominciato a comporre piccole cose qua e là, quindi ho deciso, in parte come se fosse una sfida, che avrei voluto scrivere interi brani. Non ho fatto nessun demo delle canzoni, le ho solo suonate in continuazione, cambiandone la scrittura in corso d’esecuzione. Per me è stato un processo realizzativo davvero entusiasmante.
Attraverso quali suggestioni sei pervenuta alla scelta di realizzare un album come questo?
Stranamente, la maggior parte delle ispirazioni che hanno presieduto al disco sono state di natura letteraria, in particolare la title track deriva da un libro di Amadou Kourouma intitolato “Allah Is Not Obliged”. Ho letto molta letteratura africana mentre componevo i pezzi per il disco, amandone lo stile spoglio ed essenziale; per esempio Coetzee è uno dei miei scrittori preferiti. Mi piaceva l’idea di trasferire qualcosa di quei caratteri in musica. Nel frattempo, ho anche ripreso a leggere testi in francese, in particolare le opere di Marguerite Duras e Françoise Sagan, e le atmosfere di questi libri sono state un’ulteriore importante fonte di ispirazione.
Dal punto di vista musicale, mi sono interessata molto alla musica tradizionale francese, da canzoni per bambini a quelle della resistenza, come ad esempio quelle di Anna Marly (che ha scritto “The Partisan”, della quale Leonard Cohen ha interpretato una cover). Inoltre amo le canzoni tradizionali russe (la stessa Marly era di origine russa, quindi c’è un legame), come quelle dei barcaioli del Volga.
Avevo presenti tutte queste canzoni mentre scrivevo il disco, mi interessava molto la loro struttura, basata su strofe armoniche ripetute e non necessariamente comprendente un ritornello. Ho amato il loro senso di atemporalità e il fatto che fossero così scarne e dirette in un modo davvero affascinante.
Infine, mi è capitato di ascoltare molta musica barocca, in particolare francese, spagnola e sudamericana, della quale percepisco l’eredità in particolare in un brano come “Kuril”.
Per quanto contino le definizioni, ritieni che quella di “modern classical” possa attagliarsi almeno in parte al disco?
Hmm. L’espressione “modern classical” non mi piace per niente. Penso che sia piuttosto retorica e che il più delle volte tale definizione includa musica estremamente pretenziosa e al tempo stesso trascurabile. Non è certo sufficiente creare canzoni sul pianoforte per diventare improvvisamente un compositore classico, né solo per fare musica interessante. Del resto, nemmeno io sono una grande pianista… ci sono ottimi artisti che operano in un ambito affine, quali Hauschka o Gonzales, ma dubito che anche loro possano essere entusiasti della definizione “modern classical”.
Le mie ambizioni relative a questo disco erano molto modeste, volevo semplicemente scrivere melodie o, come ho spesso ironizzato con David Sheppard, “motivi al pianoforte”. Tutt’al più, sarei già soddisfatta della definizione di “melodista”.
Quale processo hai seguito per pervenire alla scrittura e alla composizione in prima persona? Ritieni che la scrittura musicale presenti una complessità maggiore della semplice interpretazione?
Non sono mai stata semplicemente una vocalist. Con Piano Magic, certamente Glen scriveva i testi, ma sono sempre stata coinvolta nel processo di creazione dei pezzi, che fosse nell’elaborazione delle linee melodiche o negli arrangiamenti vocali, quando non anche nella partecipazione alla scrittura collettiva delle canzoni. Con Klima ho sempre scritto brani e testi e in generale comporre canzoni è ciò che ho sempre voluto e che voglio continuare a fare. Molti possono pensare che una donna che canta non sia in grado di scrivere, ma questo non è affatto vero.
Con “Korouma”, la sfida è stata quella di scrivere tutto da sola, anziché di suonare in maniera più casuale e selezionare le parti migliori. Ho scritto ogni singola nota del disco e poi a quelle composizioni ho dovuto dare una vita emozionale interpretandole al pianoforte. In questo senso, si è trattato di un processo creativo più complesso rispetto a impiegare un paio d’ora alla ricerca della giusta interpretazione per una canzone. Con ciò non intendo nemmeno dire che interpretare una canzone e il suo significato sia una cosa facile da fare; tutt’altro, perché impone di entrare in un mondo diverso e questo può essere altrettanto impegnativo e difficile.
Percepisci qualche differenza sostanziale nell’interpretare brani scritti da te o da qualcun altro?
Se i testi sono validi, e nel caso di Piano Magic lo sono stati sempre molto, allora cantarli risulta del tutto naturale. Infatti non ho scritto io i testi di buona parte delle mie canzoni che ho amato di più cantare, come ad esempio “Help Me Warm This Frozen Heart”. Ovviamente alcuni dei testi che ho scritto (alcuni dei quali sono migliori di altri) rivestono un significato estremamente personale, qualcosa per cui ho un livello di comprensione molto intimo, il che vuol dire che sento un legame speciale con essi perché vi ho messo a nudo la mia anima.
C’è qualche artista che consideri importante nella tua formazione musicale, o almeno qualcuno al quale senti affine il tuo modo di fare musica?
I musicisti ai quali mi sento più affine dal punto di vista creative sono le persone a me più vicine, come Glen Johnson, Oliver Cherer e David Sheppard. Negli ultimi anni, grazie al mio coinvolgimento nell’etichetta Second Language, ho incontrato numerosi artisti e osservare il loro modo di lavorare mi è stato di grande ispirazione. In generale avverto un legame con artisti che si vedono come artigiani che svolgono con cura il loro lavoro ma sono anche pronti a sperimentare e a prendersi dei rischi.
Quanto invece a influenze musicali, tra i miei principali punti di riferimento posso citare Sonic Youth, Low, Dead Can Dance, Aphex Twin, Moondog, Bach, Xenakis, Carl Orff, John Coltrane, Muddy Waters, The Everly Brothers… insomma, un elenco di artisti davvero eterogeneo.
Visto che tra Ginger Ale e Piano Magic ti è già capitato di collaborare a progetti più ampi che non facevano capo direttamente a te, con chi altro ti piacerebbe in astratto lavorare?
Bill Callahan, Nick Cave o Johnny Greenwood sarebbero ottimi per cominciare!
Come vivi la dimensione “live” con Piano Magic rispetto a quella di “frontwoman” di Klima? Ti piacerebbe suonare concerti di solo piano nei teatri?
Mi sto appunto indirizzando a fare concerti solisti al piano. A giugno ho suonato a supporto di Colleen a Londra, lo farò nuovamente a ottobre e infatti spero di poter venire presto anche in Italia. Suonare dal vivo e creare emozioni insieme ad altre persone è un’esperienza speciale e magica, soprattutto se come nel caso di Piano Magic si tratta di amici. Si tratta di trovare i giusti collegamenti ed entrare in sintonia di fronte al pubblico.
Suonare da sola è ovviamente ben diverso. È come essere nuda, senza dubbio. Non stai solo suonando davanti a un pubblico, ma insieme a lui. È molto impressionante ma anche incredibilmente eccitante. In ogni caso, amo suonare dal vivo, basta solo che nessuno cerchi di interagire con me durante il soundcheck perché di solito sono intrattabile!
Sembrerebbe che il percorso che hai seguito nelle varie band e ora in prima persona ti stia conducendo verso una dimensione sonora sempre più delicata ed essenziale. Si è trattato di un processo seguito consapevolmente? Quale contesto senti attualmente più adatto alle tue interpretazioni?
Penso che questo significhi soltanto che sto diventando sempre più me stessa! Sono molto interessata a una modalità diretta e scarna di comporre e cantare; è quella che mi tocca maggiormente e che mi impegno a fare. Mi piace che abbia definito il suono essenziale perché è proprio il risultato che mi prefiggevo per questo disco. Invece il prossimo potrebbe essere iper-prodotto, con un sacco di effetti vocali…
Il primo disco di Klima aveva una formula ad impatto pop semplice e immediato, tanto da aver suscitato persino comparazioni con Bjork: hai mai avuto l’aspirazione a diventare una “popstar” di quel livello?
No, non ho mai aspirato a diventare una popstar. A vent’anni o poco più, a un certo punto ho sicuramente sognato che forse un giorno avrei potuto avere una carriera come quella di Bjork o piuttosto, più modestamente, come Stina Nordenstam, ma nel senso di carriere di eccellenti artiste soliste, non certo di popstar. Faccio musica perché la sento come una necessità e perché mi piace a un livello molto profondo, per cui la mia ambizione primaria è quella di creare bella musica, non di vendere dischi né di avere una grande macchina.
Hai pubblicato il secondo disco di Klima, lo splendido “Serenades & Serinettes”, su Second Language, l’etichetta curata tra gli altri da Glen Johnson. Cosa pensi della filosofia dell’etichetta e del collettivo di artisti che vi gravitano intorno?
Trovo che Second Language sia un’etichetta meravigliosa, ammiro tantissimo l’incredibile impegno che vi profonde Glen e sono orgogliosa di avervi potuto dare un piccolo contributo. Non sono sicura che ci sia comunanza di stile tra le sue uscite, ma di sicuro c’è effettivamente un senso di finalità comune e di affinità tra tutti i musicisti. Ci conosciamo tutti, suoniamo dal vivo insieme, possiamo partecipare l’uno ai dischi dell’altro; è incredibilmente divertente e stimolante.
Qual è la tua condizione ideale per comporre? Di solito da dove proviene la tua ispirazione (in senso sia tecnico che emozionale)?
L’ispirazione emotiva è sempre al centro di tutto. Per me un processo creativo efficace è quello di cominciare da qualcosa di sperimentale e poi gradualmente aggiungervi delle linee melodiche e vari piccoli dettagli. Registro tutto su un minidisk da quattro soldi, o addirittura sul mio telefono, in seguito ascolto questi vari frammenti alcuni dei quali hanno un senso e mi inducono a svilupparli. Può capitare che scriva un’intera canzone tutta d’un fiato, ma è piuttosto raro; il più delle volte si tratta di un processo lento, funzionale proprio a catturare le emozioni spontanee prendendone un minimo le distanze. Ognuno è diverso nella creazione, questo è il percorso attraverso vi giungo io.
Come descriveresti il significato e la finalità – personale e artistica – della tua musica?
Appagamento e onestà. La mia principale motivazione è trovare piacere in quello che faccio, altrimenti nulla può esistere per me. Aspiro anche a creare musica onesta, che parli veramente di me, non mi interessano affatto colpire attraverso pose.
Infine, dopo un album così particolare e intenso come “Kourouma”, cosa possiamo aspettarci da te in futuro e cosa ti aspetti tu dalla musica?
Nell’immediato futuro voglio suonare questo disco dal vivo, da sola o insieme a un paio di altri musicisti, in modo da poter ricreare le atmosfere delle pièce più orchestrali. Poi voglio davvero fare un disco a base di chitarre elettriche effettate e parti cantate; ne sento già il suono nella mia testa, devo solo cominciare a darmi da fare per farlo uscire.