JÓHANN JÓHANNSSON: le lacrime degli angeli
Improvvisa e dunque anche solo per questo spiazzante, in un sabato pomeriggio già buio del mese di febbraio, una mail dal tono istituzionale curata da un’agenzia di promozione internazionale ha annunciato agli addetti ai lavori la scomparsa di Jóhann Jóhannsson, trovato senza vita nel suo appartamento berlinese all’età di quarantotto anni.
Il veicolo inusuale della notizia costituisce già un indizio della dimensione di riconoscimento internazionale alla quale il compositore islandese era pervenuto, in particolare negli ultimi anni, nei quali si è cimentato con successo nelle colonne sonore.
Le colonne sonore, appunto, hanno senz’altro rappresentato o strumento con il quale la musica di Jóhannsson è riuscita a introdursi in ambienti culturali e di pubblico non circoscritti a quelli della sperimentazione tra classicismo ed elettronica. Al contempo hanno però ricevuto dalla sua opera un significativo rilancio della propria dignità quale autonoma forma espressiva in quanto, pur inevitabilmente legata a una fruizione sinestetica, grazie a Jóhannsson e a pochissimi altri artisti la “musica per immagini” ha assunto un significato non meramente accessorio, dischiudendo spazi creativi i cui risultati sono ormai apprezzabili in maniera autonoma e disgiunta rispetto alle stesse componenti visuali.
La scintilla per la combinazione delle sue composizioni con le immagini scoccò comunque piuttosto tardi, quando l’artista islandese aveva già alle spalle una già nutrita discografia, dunque si può immaginare che all’inizio si trattasse di una pur naturale deviazione dalle sue elegiache combinazioni di elettronica, rumore e sezioni orchestrali. Jóhannsson possedeva infatti un profilo artistico già assai complesso, che lo distingueva in tutta evidenza dalla pletora di cultori del solo minimalismo neoclassico, quando cominciò a lavorare per la prima volta – in maniera quasi estemporanea – per associare suono e immagini. Era il 2009 e si trattava di una pellicola di animazione, il cui corrispettivo sonoro assunse la forma elettronico-orchestrale di “And In The Endless Pause There Came The Sound Of Bees“; seguirono ben preso la documentaristica dal contenuto umano e sociale “The Miners’ Hymns” (2011), dedicata alla crisi del sistema minerario britannico negli anni Ottanta, e la narrazione degli spazi urbani resa nell’alienante sinfonia metropolitana “Copenhagen Dreams” (2012).
All’eterogeneità tematica e narrativa delle componenti visuali corrispondeva fin da subito quella dei toni sapientemente orchestrati secondo registri che con estrema naturalezza erano capaci di farsi delicati e solenni, ariosi e spettrali. Non si trattò di esperimenti o prove tecniche, ma della vera e propria scoperta da parte di Jóhannsson di un infinito universo creativo, nel quale proiettare formule sempre nuove, maturate nel corso delle sue precedenti esperienze. Non è un caso che gli ultimi otto anni della sua produzione presentino un solo album vero e proprio, accanto a una pletora di collaborazioni e di colonne sonore, queste ultime in particolare grazie all’incontro con il regista canadese Denis Villeneuve, con il quale Jóhannsson instaurò un sodalizio che lo condusse a lavorare con continuità per le sue pellicole per il grande schermo “Prisoners” (2013), “Sicario” (2015) e “Arrival” (2016), interrotto soltanto di recente, quando in maniera improvvisa e non del tutto chiarita fu costretto ad abbandonare il lavoro per la colonna sonora di “Blade Runner 2049”. Nel medesimo periodo arrivò anche il prestigioso riconoscimento del Golden Globe e la candidatura all’Oscar per la toccante sensibilità della colonna sonora di “The Theory Of Everything” (2014) di James Marsh, sicuramente il punto più alto di una produzione che, senza snaturare alcunché dei propri caratteri, era ormai sbocciata a un livello non più solo di ricerca sotterranea.
Ma non sono certo gli allori a definire la valenza compositiva di Jóhannsson, il cui personale “tocco” nella scrittura di musica per le immagini trascendeva di gran lunga associazioni calligrafiche per accedere invece a un’analisi meta-testuale di trame e contenuti tale da permettergli di scandagliarne un’essenza più profonda, alla quale soltanto il suono sarebbe stato destinato a legarsi. Ne è prova evidente un aneddoto racccontato da parte del più giovane connazionale Ólafur Arnalds, che per ricordarne la figura ha riferito come Jóhannsson avesse lavorato per oltre un anno alla colonna sonora del film “Mother!” di Darren Aronofsky, producendo oltre un’ora e mezza di musica, salvo poi suggerire al regista che sarebbe stato più coerente con la sua pellicola sostituirla con suoni astratti e con il semplice silenzio.
Se tale aneddoto dimostra come anche nel tratto della sua produzione legato al cinema Jóhannsson sia stato sempre molto distante dall’idea di lavorare su commissione, conferma anche come quel tipo di attività non fosse altro che un esito naturale della sua sensibilità applicata alla musica.
Ben prima di aver associato per la prima volta le proprie composizioni alle immagini, aveva infatti messo in mostra una straordinaria capacità di creare mondi sonori vividissimi e toccanti, unendo linguaggi e mezzi moderni all’intramontabile contenuto suggestivo di un mutevole ensemble di archi, pianoforte, fiati ed elettronica. Tutto ciò avveniva dopo una militanza giovanile in sotterranee band islandesi dedite tra gli anni Ottanta e i Novanta al rock alternativo (Daisy Hill Puppy Farm, HAM) o al synth-pop (Lhooq), parallelamente alla quale Jóhannsson aveva comunque cominciato a cimentarsi nella sperimentazione elettronica, quale componente dell’Apparat Organ Quartet a co-fondatore dell’etichetta Kitchen Motors, e nella composizione di musica per la danza e per il teatro. Proprio a una performance teatrale si deve infatti la prima testiomianza discografica a suo nome, un cd-r autoprodotto nel 2001, che l’anno successivo l’etichetta inglese Touch rilanciò in forma leggermente diversa su scala internazionale. Si intitolava “Englabörn”, e fu subito magia: sedici brani incastonati tra due frammenti lirici catulliani, frutto di una lucidissima sequenza di partiture pianistiche, aperture orchestrali e suoni elettronici che ne esaltavano le dinamiche e, a tratti, prendevano il sopravvento con frequenze di rumorosa inquietudine.
A quella scintilla seguirono “Virðulegu Forsetar” (2004), una pièce di un’ora ripratita in quattro parti, registrata nella Hallgrímskirkja, la cattedrale di Reykjavík, con una sezione di undici fiati, elettronica, percussioni, organi e pianoforte, e la geniale interazione tra linguaggi delle macchine e sensazioni umane, tra suoni informatici primordiali e costruzioni orchestrali, di “IBM 1401, A User’s Manual” (2006).
Per stessa ammissione dell’artista, è tuttavia “Fordlandia” (2008) a rappresentare il suo vero e proprio biglietto da visita, definendone una personalità davvero in grado di creare mondi sonori immaginari e di raccontarne le storie, senza far ricorso alle parole, ma attraverso l’elaborazione di un lessico al tempo stesso cerebrale ed emotivamente toccante. Il naturalismo bucolico del non-luogo tratteggiato dall’impianto concettuale dell’album trova nel suo svolgimento manifestazione imponente, sotto forma di loop armonici e vibrati orchestrali, nei quali si confonde la stessa essenza degli strumenti che vi hanno dato luogo, sublimata in un’inestricabile tensione tra melodia e tensione atmosferica.
Rileggendone la produzione alla luce della sua prematura scomparsa, può risultare enfatizzato il simbolismo inquieto sotteso a molte opere di Jóhann Jóhannsson; non può tuttavia negarsi come le sue elegie post-moderne siano state in prevalenza improntate a sensazioni di sconfitta e di smarrimento di fronte all’inattingibilità di forze naturali e umane, appena celate sotto un’afasia fortemente metaforica.
Resterà a testimoniarlo anche la scelta del mito di Orfeo ed Euridice quale traccia del suo ultimo album “Orphee” (2016), pubblicato dalla prestigiosa Deutsche Grammophon a coronamento di un percorso personale e artistico che ha magistralmente sintetizzato linguaggi accademici e ricerca sonora contemporanea, rigore compositivo e struggente coinvolgimento emozionale.
Mentre quello che viene correntemente etichettato quale neoclassicismo si riduce spesso alla mera sommatoria tra strumenti acustici ed elettronici, ben più organica e lucidamente fuori dagli schemi è stata la visione che ha guidato le opere di Jóhann Jóhannsson, forse l’unico dei compositore contemporaneo in grado di assurgere in pieno al rango di “classico”, davvero rappresentativo di questi anni.
Kveðja, Jóhann.
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Postilla: ulteriore prova della straordinaria considerazione goduta da parte di Jóhann Jóhannsson sono i numerosissimi musicisti di estrazione diversa che hanno sentito la necessità di ricordarne la figura tramite messaggi sulle loro pagine social dopo averne appreso la scomparsa e la partecipazione di artisti del calibro, tra gli altri, di Ryūichi Sakamoto, A Winged Victory For The Sullen e Alex Somers ai rimaneggiamenti contenuti nella nuova edizione di “Englabörn and Variations”, terminata poco prima di morire e appena pubblicata da Deutsche Grammophon.
(pubblicato su Rockerilla n. 452, aprile 2018)