Autore da giovanissimo di un disco pubblicato in Italia nel 1972 (“Dreaming With Alice”), assurto in seguito a vero e proprio culto psych-folk e rarità per collezionisti, Mark Fry ha lasciato in secondo piano la musica per quasi quarant’anni, senza però mai abbandonarla del tutto. Mentre costruiva una carriera di apprezzato pittore e attraversava esperienze di vita non certo comuni (ad esempio sei mesi trascorsi in Africa, sul delta del Niger), le canzoni sono state sempre con lui, restando soltanto latenti in quell’osmosi tra note e colori che riassume la sua tavolozza artistica. Sulla scia di una ristampa di “Dreaming With Alice”, le canzoni scritte nel corso degli anni sono tornate a materializzarsi nel 2008, raccolte in “Shooting The Moon”, disco che non si può considerare un organico secondo album.
Quello di Mark Fry non è stato tuttavia un ritorno estemporaneo, perché la sua nuova vita da cantautore è di fatto cominciata da quando è entrato a far parte del collettivo di artisti che gravitano intorno all’etichetta Second Language. Al visionario “I Lived In Trees“, pubblicato nel 2011 insieme a The A. Lords (uno dei tanti progetti facenti capo al polistrumentista Michael Tanner), ha da poco fatto seguito “South Wind, Clear Sky“, secondo disco di una seconda vita cantautorale, piacevolmente fuori dal tempo ma ben distante dalla mera contemplazione del passato. Anzi, a oltre sessant’anni, Mark Fry non ha affatto esaurito idee e progetti, e con la maturità odierna è in grado di raccontare le trasformazioni di linguaggi espressivi intercorse negli ultimi quarant’anni e quella personale da adolescente degli anni ’70 a originale artista a tutto tondo. Adesso che sembra aver trovato continuità nella sua attività di cantautore, racconta il suo ininterrotto rapporto con l’arte e la musica, dalla privilegiata prospettiva di osservazione offertagli dai tanti anni di un’esperienza applicata a una pluralità di linguaggi artistici e dalla maturità di chi ha vissuto tempi e veicoli comunicativi diversi.
Hai pubblicato dischi in due periodi molto diversi tra loro: quali differenze percepisci nel tuo approccio alla musica e alla scrittura di canzoni tra gli anni ’70 e oggi?
C’è una grandissima differenza nello scrivere canzoni tra quando si è giovani e quando si è più maturi; si ha una prospettiva diversa rispetto al tempo, così che in gioventù si può scrivere spesso del presente e del futuro, mentre quando si va avanti con gli anni si tende a guardarsi indietro ed essere più riflessivi, o almeno è così nel mio caso. Tuttavia, il mio approccio alla musica è rimasto identico, nel senso che cerco di raccontare delle storie nel ristretto arco di tempo di una canzone; in quel senso mi sono sempre sentito un cantautore di vecchio stampo. Mi piace raccontare delle storie.
Nel corso degli anni, sei stato (e sei tuttora) sia un musicista che un pittore. Come capisci quando la tua ispirazione necessita di manifestarsi in una canzone piuttosto che in un quadro?
Ci sono dei giorni nei quali posso suonare chitarra senza sentite nulla, e altri nei quali la imbraccio e sento già una canzone. Con la pittura funziona allo stesso modo: a volte posso fare un segno sulla carta senza che abbia alcun senso, mentre in altre occasioni è come se quel segno prendesse immediatamente vita e mi possa condurre in qualsiasi direzione.
Parlando di musica e pittura, mi hanno colpito molto alcune citazioni riportare sul tuo sito, in particolare quella nella quale dici che “attraverso l’atto della pittura, le canzoni hanno ricominciato a tornare da me”. Puoi spiegare il processo creativo che ti ha riportato a scrivere canzoni? E ti sei spiegato perché ha richiesto tanto tempo?
Guardando indietro agli anni ’70, penso che fossi più disilluso dal fatto che le cose non funzionassero come avrei voluto di quanto fossi in grado di capire allora e questo mi ha fatto perdere confidenza col mezzo espressivo. In realtà non ho mai completamente smesso di scrivere canzoni, ma non provavo a fare nulla con quello che scrivevo. Inoltre, prima che la tecnologia digitale e le registrazioni casalinghe prendessero piede, era estremamente dispendioso registrare qualsiasi cosa, a meno che non si avesse dietro un’etichetta che sostenesse le spese. Quando poi ho cominciato ad avere un certo successo come pittore mi sono sentito più tranquillo e la ristampa di “Dreaming With Alice” su Sunbeam nel 2006 ha rappresentato l’incoraggiamento del quale avevo bisogno per ritornare alla musica e ricominciare a fare qualcosa delle mie canzoni.
In generale, da dove proviene la tua ispirazione?
Proviene dal lavoro stesso. A volte ascolto un verso o un’espressione e ne prendo nota, ma quella non è ispirazione, piuttosto si tratta di materiale grezzo. Le idee migliori spesso prendono forma al di fuori dell’atto di dipingere o di scrivere. Non so nemmeno io quale sarà l’oggetto di un quadro o di una canzone fino a quando non comincio a lavorarci sopra. Il processo creativo è un mistero continuo, sento solo come se dovessi portarlo a termine realizzando qualcosa.
Hai una lunga prospettiva di osservazione su due diverse forme d’arte: come pensi che il mondo della musica e della pittura si siano sviluppati negli ultimi quarant’anni?
Tutti gli artisti che conosco hanno una qualche storia terrificante da raccontare su come siano stati devastati in entrambi i mondi e credo si tratti di qualcosa che è sempre avvenuto. Il mercato dell’arte ha subito profonde trasformazioni negli ultimi quarant’anni: oggi il valore di un quadro è percepito soprattutto in termini monetari, in ragione del prezzo al quale possa essere venduto e se rappresenti un buon investimento. Le persone che vogliono comprare quadri perché li amano e vogliono vivere con loro sono adesso molto più rare di una volta. È come se le persone avessero perso dimestichezza con i propri sentimenti e abbiano bisogno che il loro giudizio venga confermato da un “esperto”, il che è molto triste.
Nel campo della musica (e in generale in quello delle arti) la digitalizzazione ha rappresentato un’evoluzione importantissima. Ha liberato un’intera generazione e ha reso possibile a molti musicisti e artisti di pubblicare le proprie opere, ma al tempo stesso si ha la sensazione che ci sia quasi troppa musica in circolazione, tanto che può essere difficile trovare qualcosa di veramente valido.
Avrai parlato mille volte di “Dreaming Wih Alice”…ma mi piacerebbe sapere qualcosa a proposito della scena artistica italiana all’inizio degli anni ’70 e come ti rapporti a quell’album dopo così tanto tempo.
Dal mio punto di vista, quando ho vissuto in Italia nel 1971 c’era la sensazione che le creazioni artistiche più entusiasmanti e sperimentali fossero nel campo del cinema, perché i lavori di Pasolini, Fellini, Antonioni, Olmi e altri ancora erano molto innovativi. Quanto alla musica, sembrava che l’attenzione fosse tutta per il pop commerciale, ma c’erano anche artisti validi come Lucio Dalla, che per me ha rappresentato un’autentica ispirazione ed è diventato un mio buon amico. All’epoca era molto timido, poco più di un adoloscente imbarazzato, e lui mi ha fornito aiuto e incoraggiamento. Ma a quel tempo la scena musicale principale era quella londinese, non certo quella italiana, ed è questo il motivo per cui sono tornato in Inghilterra dopo la pubblicazione di “Dreaming With Alice”. Ascoltare adesso quel disco mi riporta immediatamente indietro alla Firenze degli anni ’70. È stato un periodo molto felice per me, e anche per questo mi piace molto suonare ancora oggi quelle canzoni dal vivo.
Che musica preferisci ascoltare oggi?
Non ascolto musica tutto il tempo, anche perché spesso provo a scriverne. L’artista che ho ascolto di più di recente è Bill Callahan, trovo che sia un songwriter fantastico – è un poeta, come Leonard Cohen – ed è anche un bravissimo interprete, che è una combinazione non comune. Mi piace anche ascoltare la musica dell’Africa occidentale, specialmente i suonatori di kora come Toumani Diabate o Ballaké Sissoko e Ali Farka Touré. Il loro suono mi riporta al periodo magico che ho trascorso in Africa.
Hai pubblicato “I Lived In Trees” e adesso “South Wind, Clear Sky” su Second Language, l’etichetta curata da Glen Johnson. Come sei entrato in contatto con loro?
Ho conosciuto Second Language tramite Michael Tanner degli A. Lords, che aveva già pubblicato dischi con l’etichetta. Credo che inizialmente abbia fatto sentire loro qualcosa su cui stavamo lavorando insieme. Mi sento molto fortunato che Glen abbia voluto pubblicare anche “South Wind, Clear Sky”, so che sono in buone mani.
Cosa pensi della filosofia dell’etichetta e del “collettivo” di artisti che condividono una filosofia in qualche modo comune che vi si è rapidamente formato intorno?
Lavorare con Second Language è un’ottima esperienza, perché si ha completa libertà artistica. Glen stesso è un musicista di talento eccezionale ed è molto sensibile a quello che un artista cerca di fare. Pone grande attenzione ai dettagli, cosa che non succede con un’etichetta grande, e cura moltissimo l’aspetto fisico dei dischi. In questo Second Language eccelle ed è imitata da altri.
Ora che chiunque può ascoltare praticamente tutta la musica sulla rete, quale ruolo ritieni possa giocare un’etichetta nel tenere in vita il formato fisico? In generale, cosa pensi del modo in cui oggi la musica viaggia sulla rete?
Una delle cose straordinarie della tecnologia digitale è che si può facilmente inviare musica all’altro capo del mondo e collaborare con altri artisti a distanza. Questo dischiude nuove possibilità di lavoro – ed è proprio così che ha preso forma “I Lived In Trees” – e mi ha permesso di lavorare con Ken Matsutani di Captain Trip Records a Tokyo sulla produzione dell’album “Live In Japan”.
Quanto al formato fisico, credo che il cd nella sua forma convenzionale sarà presto un oggetto superato. Ma è interessante il revival del vinile; ogni volta che metto su un disco in vinile mi ricorda la qualità speciale del suo suono. Da quel punto di vista le cose stanno migliorando: ai primordi delle registrazioni digitali i dischi suonavano spesso freddi e duri, mentre adesso la finalità della registrazione sembra quella di ottenere un suono “quasi analogico”. È un po’ come la Cappella Sistina: prima del restauro aveva una patina meravigliosa, mentre adesso è tutta pulita e brillante. È affascinante poter vedere i colori forti e vivaci usati da Michelangelo, ma con la patina del tempo è andata persa anche una certa morbidezza.
Una delle qualità del vinile è che, oltre al suono, dà l’opportunità di creare un artwork vero e proprio. Oggi ci sono grandi artisti e designer che lavorano per questo, ad esempio Iker Spozio, che ha creato la copertina di “I Lived In Trees”, così come quelle di dischi di Colleen, Hauschka e di molti altri musicisti.
In “I Lived In Trees” sei stato accompagnato dagli A. Lords di Michael Tanner, mentre hai da poco preso parte al disco collettivo dei Silver Servants: com’è stato lavorare con loro?
È stato un privilegio lavorare con musicisti giovani e di talento; amo sempre lavorare con altri musicisti perché questo si pone in contrasto con la solitudine dello studio nel quale dipingo. Sono stato felice di partecipare al disco dei Silver Servants: l’approccio collettivo ha prodotto una sorta di caleidoscopio, una realizzazione dell’ethos di Second Language, nella quale elementi in apparenza disparati si sono fusi in un insieme coeso.
Il processo realizzativo del nuovo disco è stato diverso rispetto a quello che ha portato a “I Lived In Trees”?
Sì, è stato molto diverso. “I Lived In Trees” ha preso forma lentamente, nel corso di oltre due anni, a partire da quando Michael Tanner e Nicholas Palmer mi hanno inviato alcune piéce strumentali e io ho provato a cantarle trovando una linea narrativa al loro interno. Dopo di che ho rimandato loro i pezzi e abbiamo provato a replicare il processo con altra musica, lavorando in questo modo per circa sei mesi prima ancora di incontrarci di persona. A quel punto, visto che il nostro lavoro stava era evoluto in una serie di canzoni, loro due sono venuti in Francia e abbiamo cominciato a suonare insieme, registrando altra musica e a provarla in modo che potessimo suonarla in occasione di alcuni concerti in Francia e in Inghilterra.
Con “South Wind, Clear Sky” volevo invece fare un disco in maniera per me più tradizionale, in un periodo più breve e concentrato. Ho scritto da solo musica e canzoni, registrando quasi tutte le parti cantate e quelle di chitarra nel mio piccolo studio casalingo (credo di riuscire a cantare meglio in privato!). Quindi ho inviato il materiale a Guy Fixsen a Londra, dove abbiamo impiegato dieci giorni per registrare gli altri strumenti – contrabbasso, pianoforte, corno francese, qualche arco – per ottenere il risultato che volevamo.
Sembra che la musica folk, nelle sue varie forme, si stia diffondendo e affermando sempre più tra gli artisti indipendenti: cosa pensi di questi ritorno alla semplicità e ai linguaggi del folk?
La musica folk è legata alla narrazione di storie, che è qualcosa di eterno, reinterpretabile all’infinito da ogni nuova generazione di musicisti – penso alla potente versione di Kurt Cobain di “In The Pines”, che era stata interpretata da Leadbelly ma anche da molti altri musicisti prima di lui. Le prime canzoni che ho imparato a suonare sulla chitarra erano tradizionali folk americani, spesso resi famosi da Woody Guthrie o Leadbelly, in parte perché erano facili da suonare ma anche perché raccontavano delle storie. Oggi, il pubblico si interessa maggiormente agli strumenti tradizionali e al modo in cui evocano connessioni tra luoghi e persone. La musica folk è personale e riflessiva e in questo periodo questo sembra colpite molte persone.
Hai vissuto in Africa per un certo periodo. In che modo quell’esperienza ha influenzato la tua personalità artistica?
Ho vissuto in quella che all’epoca era una parte molto selvaggia del Mali, a sud di Timbuktu, nella zona interna del delta del Niger. Per metà dell’anno quella era una zona alluvionale, nella quale ci si poteva spostare soltanto su piroghe di pescatori. Era un paesaggio misterioso, nel quale acqua e cielo sembravano fondersi l’uno nell’altro. Anche i suoni lì avevano una qualità straordinaria, si diffondevano lontano per mezzo dell’acqua, tanto che si poteva sentire qualcuno che ti chiamava a chilometri di distanza. I colori delle imbarcazioni e dei vestiti erano incredibilmente vividi: una chiazza blu era ben distinguibile in un paesaggio desertico e in quel contesto sembrava abbastanza astratta. Tutti questi elementi hanno contribuito alla mia esperssione pittorica e musicale.
L’Italia ha senz’altro rivestito un ruolo importante nella tua biografia artistica. Puoi raccontare il tuo rapporto con il nostro Paese nel corso degli anni?
I miei genitori avevano una piccola casa all’Argentario, costruita da loro negli anni ’50, per cui ho trascorso buona parte della mia infanzia in Italia. Quando ho finito la scuola in Inghilterra, l’Italia è stato il primo posto in cui sono andato. Ho trascorso un po’ di tempo all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, ma in quel periodo l’Italia non era un posto felice dal punto di vista politico e c’erano un sacco di cose che non funzionavano, tra cui le scuole d’arte. Proprio per questo mi sono dedicato alla musica. Ho visto moltissimo dell’Italia accompagnando Lucio Dalla in un tour che iniziò a Rimini e si concluse a Trapani. Negli anni ’80 con mia moglie avevano pensato di trasferirci in Puglia, ma ci siamo resi conto che la cosa non avrebbe potuto funzionare dal punto di vista economico. A volte immagino come sarebbero potute essere le nostre vite se l’avessimo fatto.
Dalla mia esperienza ho ricavato che gli italiani possiedono una sofisticata sensibilità poetica e uno spiccato rispetto per gli artisti in tutti i campi. Le persone sembrano strettamente legate a tutti i loro sensi, non solo a quelli fisici, ma anche all’ironia e alla percezione del trascorrere del tempo. Credo che questo possa riassumersi in un approccio filosofico alla vita che mi attrae molto. Ogni volta che guardo un dipinto di Giovanni Bellini, sento che l’Italia è la mia patria spirituale.
(versione integrale dell’intervista pubblicata su Rockerilla n. 410, ottobre 2014)