rearview mirror: 2018

Anche quest’anno, per la settima volta, è giunto il momento di tornare a guardarsi indietro, ai mesi trascorsi e alla musica che li ha popolati. Mentre il rumore di fondo delle tradizionali classifiche di fine anno non si è ancora diradato, mentre tutti sono concentrati nel non perdere il passo con le novità dell’annata che si apre, l’esercizio riepilogativo diventa una tradizione ormai sempre più scollegata dalla realtà della musica “liquida”, oltre che da quella della vastità incontrollabile delle uscite discografiche, delle cassette casalinghe e degli streaming.

Da un lato, infatti, i riepiloghi non possono che essere sempre più parziali, tanto per i rispettivi punti di osservazione quanto per l’impossibilità di affermare l’effettiva completezza di conoscenza delle produzioni di un’annata, che anzi rimane fisiologicamente aperta a scoperte successive. Dall’altro, sempre maggiore è la quantità di musica che sfugge ai formati dell’album o dell’Ep e, di conseguenza, agli abituali mezzi di trattazione recensoria.

Non è soltanto la mole della musica in circolazione, né la vacuità di qualsiasi tentativo anche solo di avvicinare la completezza di uno sguardo sul mondo musicale presente, a sollevare interrogativi sul senso di continuare a scriverne, tanto più se per pura passione, nei ritagli sempre più esigui concessi dalla quotidianità. È anche e soprattutto la consapevolezza della necessità di un mutamento di approccio, che includa sempre più la fuggevolezza del brano lanciato, quale messaggio in bottiglia, nel mare magnum della rete, di fronte al quale lo stesso appassionato ricercatore non necessita più di approfondimenti discorsivi, per i quali non vuole nemmeno impiegare il proprio tempo, quanto piuttosto di una semplice dritta, di una condivisione che gli suggerisca “ehi, è bello, potrebbe piacerti”. Non si tratta dello svilimento di quella che una volta era stata una funzione nobile e fondamentale, bensì dell’adattamento dei mezzi ai tempi: i fatti hanno ormai dimostrato che la rete non ha sostituito la stampa musicale (e sarebbe anacronistico continuare a pensarlo), ma assomiglia sempre di più alla radio, con le sue playlist fin troppo valorizzate, le canzoni da ascoltare e – al più – qualcuno che le proponga con una introduzione quanto più breve possibile.

È per questo che Music Won’t Save You, d’ora in poi, cercherà di interpretare sempre più questa funzione, attraverso l’ampliamento della sezione “media” già presente e, probabilmente, attraverso una sorta di report periodici contenenti un’agile sintesi di segnalazioni piuttosto che recensioni estese. Queste ultime non spariranno, ma nel loro formato abituale sono destinate a diminuire di numero, riservate al disco della settimana e a quelli che per qualche motivo saranno ritenuti meritevoli di una trattazione dedicata; inoltre continueranno a comparire su queste pagine quelle pubblicate su Rockerilla.

Agile intende dunque essere anche questo riepilogo annuale, un modo soprattutto per tornare a sottolineare i dischi più ascoltati e coinvolgenti tra quelli intercettati nel corso del 2018 e tra le oltre quattrocento recensioni ad essi dedicati.

Di tre album su tutti resta impresso il ricordo a fine anno, album molto diversi tra loro che hanno impressionato per profondità tematica e capacità suggestive. Tra questi, non poteva non spiccare “Double Negative” dei Low, ultima creazione di una band che dopo un quarto di secolo di attività mette in discussione la propria caratteristica espressione, per adeguarla al contenuto disturbante del disperato messaggio umano sotteso a testi e suoni dalla marcata valenza politica.

Personali, ma anche in questo caso con un occhio rivolto alla realtà contemporanea, sono invece le tematiche di “Cusp”, lo splendido lavoro con il quale Alela Diane ha compiuto la trasformazione del suo folk polveroso in elegante poesia quotidiana, guidata da un pianoforte che per larghi tratti ha sostituito le abituali corde acustiche. Un mondo irenico, di sogni e contemplazioni bucolico-ambientali, popola invece lo splendido ritorno degli epic45, “Through Broken Summer”, che ben sette anni dopo il precedente album hanno confezionato un variopinto microcosmo di suoni e sensazioni, legato non solo ai vagheggiamenti della countryside, ma rappresentativo dell’intera formazione musicale di Rob Glover e di Ben Holton (il quale ultimo ha peraltro di poco anticipato il lavoro della band con il non meno ispirato “Oh, Leaking Universe” del suo progetto My Autum Empire).

Accanto a questi dischi, si può essere facili profeti nel prevedere che rimarranno impresse nella memoria le orchestrazioni di Grand Salvo (“Sea Glass”), la maturità dall’eleganza eccentrica, ma non per questo meno tormentata, di Soap&Skin (“From Gas To Solid / You Are My Friend”), le eteree armonie vocali di Anne Garner (“Lost Play”) e Hilary Woods (“Colt”), le notturne riflessioni al pianoforte di Grouper (“Grid Of Points”), l’equilibrio tra intimismo cantautorale e arrangiamenti neoclassico-ambientali dell’incontro di Dakota Suite con Emanuele Errante e Dag Rosenqvist (“What Matters Most”), ma anche le canzoni pop trasognate e più o meno innervate di elettricità di Ghost Music (“I Was Hoping You’d Pass By Here”) e Red Red Eyes (“Horology”).

L’inesauribile, agrodolce spirito pop ha mostrato la propria chiave acustica nelle deliziose cartoline dei Sunbathers e nei colori pastello degli Innocence Mission, rivelando un profilo obliquo e visionario nel lavoro di Grimm Grimm e nel modernariato di Watoo Watoo. L’indie-pop d’autore ha trovato un nuovo sodalizio in Tracyanne & Danny, mentre le chitarre sono tornate a “scampanare” nei dischi di Stephen’s Shore e Catherines, oltre che nel pregevole esordio dei Massage.

Le mille sfumature del folk hanno confermato l’ispirazione di Laish e i delicati scambi dei Luluc, ma anche le visioni acide di The Left Outsides e gli incanti polverosi di Meg Baird e Mary Lattimore e, in combinazione con linguaggi espressivi tra i più vari, si sono sintetizzate nel gradito ritorno “folk-tronico” dei Tunng e nelle nebbiose opalescenze rurali di The Declining Winter.

Tra le proposte più propriamente cantautorali, il tempo non ha scalfito lo smalto di un veterano quale Damien Jurado, mentre solo in parte ha alleviato i tormenti di Mount Eerie. Conferme significative sono provenute da Raoul Vignal e Puzzle Muteson, mentre di vera e propria consacrazione si può parlare per Marlon Williams. Sorprendente e toccante il debutto solista di Daniel Blumberg, così come il saggio intimista di The Wave Pictures, che va ad affiancare la poetica ormai non più solo casalinga di Hanging Up The Moon, Monarch Mtn e David Allred. Dalle “camerette” non sono mancate proposte delle più varie, ormai orientate soprattutto in una dimensione emotiva malinconica e vivace al tempo stesso, come quella rappresentata da fuvk e Wished Bone, ma anche dal più solare pop di Cut Worms.

Ricchissimo, come sempre, il ventaglio di voci femminili dispiegatosi lungo tutta l’annata, che ha visto tra le proprie eccellenze Brigid Mae Power, Laura Gibson, Sharron Kraus, Sara Forslund, Lisa/Liza e Queen Of The Meadow. Tante anche le nuove voci affacciatesi sulla scena o che in corso d’anno hanno realizzato i primi lavori sulla lunga distanza, da Cade ad Hannah Cameron, da Jessica Risker a Keto, da Fenne Lily a Gia Margaret, da Nature Shots a Maxine Funke, oltre alle prime testimonianze soliste, al di fuori delle precedenti esperienze, della deliziosa Lou Richards e di Aisha Burns.
Le voci femminili, che si prestano come sempre a intersecarsi con vapori ambientali ed evanescenze chitarristiche, hanno continuato a pennellare scenari incantati nei dischi di Birds of Passage, Ekin Fil, Nighttime e Brianna Kelly, oltre a popolare di una varietà di suggestioni, non solo atmosferiche, il ritorno di Roy Montgomery.

Sul versante ambient e sperimentale, tra le innumerevoli uscite si segnala la purezza ipnotica dei lavori di James Murray, di Ian Hawgood, di Keith Kenniff (quest’anno attivo sotto entrambi gli alias di Helios e Goldmund) e degli Hammock, mentre in chiave di ricerca dronica accanto a vere e proprie istituzioni quali Tim Hecker e Christina Vantzou, meritano una citazione le calde timbriche di Halftribe e le avvolgenti spire sonore di Daniela Orvin. Densissima anche la stagione dal punto di vista del neoclassicismo più o meno ambientale, che oltre ai nomi consolidati di Nils Frahm e Aaron Martin (quest’ultimo presente anche nel duo From The Mouth Of The Sun e nella collaborazione con Gavin Miller), ha finalmente regalato variazioni tematiche e interessantissimi debutti, quali quelli di Alapastel, Aries Mond, Emilie Levienaise-Farrouch, ibridazioni vocali (Maarja Nuut & Ruum), suggestive esecuzioni (Simon McCorry) e graditi ritorni (Glacis).

Sempre maggiore spazio e soluzioni ogni volta più stimolanti hanno presentato le intersezioni acustico-ambientali, in evoluzione del fingerpicking (Lake Mary, Seabuckthorn, Toby Hay, Nathan Salsburg), ovvero condensate in filigrane che creano un tutt’uno con l’atmosfera (Federico Durand, Aukai, Max Ananyev, The Green Kingdom, Cyril Secq + Sylvain Chauveau). Dalle vibrazioni delle corde sono poi scaturiti sconfinati paesaggi emozionali, disegnati dall’arpa di Mary Lattimore o dai peculiari ensemble Zura ZajHour o ancora da quello guidato da Ben McElroy.

Come sempre non confinate in un’apposita “riserva indiana” sono state le proposte di artisti italiani, prese in considerazione non in quanto tali ma con esclusivo riferimento al loro contenuto. Su tutte, hanno impressionato il ritorno del palpitante slow-core di Lebenswelt, la ricerca sonora fuori dagli schemi di Attilio Novellino e l’eccelsa collaborazione ambientale tra Francis Gri e Federico Mosconi. La collaborazione, appunto, appare pratica ricorrente per i musicisti sperimentali italiani, come hanno dimostrato i lavori dello stesso Novellino con Roberto P. Siguera sotto l’alias Luton, di Matteo Uggeri con Luca Bergero e di The Star Pillow con Giulio Aldinucci, a sua volta protagonista di un’uscita condivisa con Ian Hawgood, oltre che di uno splendido lavoro solista, “Disappearing In A Mirror”. Da segnalare infine i tre lavori di Lorenzo Bracaloni sotto l’alias Fallen, le bilanciate esplorazioni tra rumore e atmosfera di Galati, Xu e meanwhile.in.texas le conferme della sensibilità e del respiro internazionale dei compositori Stefano Guzzetti e Federico Albanese e i graditi ritorni di Emanuele Errante e Giuseppe Cordaro.

Ben probabilmente saranno ancora numerosi i dischi del 2018 ancora da scoprire e proporre su queste pagine, con la consapevolezza che ora più che mai un anno musicale non può dirsi mai veramente concluso, poiché in fondo i riepiloghi di fine anno sono una mera convenzione, come del resto il tempo stesso, alla quale anche stavolta non ci si è sottratti. Tra un anno chissà… perché ogni giorno che passa “music is bigger than words” e le seconde sono sempre più accessorie e irrilevanti rispetto alla prima, che anche in assenza di parole potrà continuare ad alimentare sensazioni e a raccontare storie, descrivendo la storia personale e unica di ciascuno che non smetta di viverla con passione.

Buon 2019!

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