rearview mirror: 2015

2015Per il quarto anno consecutivo, tanti quanti quelli di autonoma attività di Music Won’t Save You, ci si ritrova al tradizionale resoconto ricostruttivo degli ultimi dodici mesi di produzioni musicali, seguite anche nel 2015 attraverso una mole mai così ingente di recensioni (circa 600!), streaming media, interviste e articoli.
Chi segue queste pagine, curate per pura passione e con impegno quotidiano, saprà già bene quanto poco interesse vi venga rivolto a liste e classifiche che, fin dai primi giorni dello scorso dicembre, hanno impazzato su riviste cartacee, siti web, blog, pagine social o altro ancora. Superfluo dunque ripetere considerazioni già svolte in passato (rimando in proposito al pezzo riepilogativo sul 2014) circa la valenza delle classifiche in un mondo popolato da una miriade di uscite discografiche, alle quali è umanamente impossibile tener dietro tanto a individui singoli quanto anche a soggetti formalmente collettivi che poi alla fine non sono altro che sommatorie di individualità.

L’unica aggiunta al tema proviene da una recente esperienza personale, che dimostra meglio di tante parole quanto sfocata sia la rappresentazione attraverso le classifiche di fine rispetto alla complessità delle proposte che quotidianamente sollecitano gli appassionati di musica. Si tratta della constatazione, tanto oggettiva quanto emblematica, di come la pretesa sintesi di una classifica redazionale possa essere plasmata dalla semplice convergenza di un paio tra i soggetti che vi hanno partecipato, tanto che – esempio non casuale – possano essere sufficienti due secondi posti tra trenta classifiche individuali per raggiungere il podio di quella collettiva: un dato di fatto che non necessita ulteriori commenti.

Dunque, Music Won’t Save You arriva volutamente ancora una volta dopo che tutti i rituali di fine anno si sono compiuti e l’attenzione generale è già proiettata verso una nuova annata che si annuncia non meno caotica, ma sicuramente non meno stimolante, di quella appena conclusa. Sì, perché pur nel marasma generale alla fine ci sono i dischi e le canzoni “che rimangono”, che mantengono viva la memoria di sé anche se nel frattempo altre centinaia se ne sono succeduti e (più o meno) stratificati. Il resoconto che segue vuole perciò essere piuttosto una raccolta di appunti, inevitabilmente disordinati, di quanto di più coinvolgente è transitato su queste pagine nell’ultimo anno; un resoconto senz’altro incompleto e suscettibile di ulteriori integrazioni future, proprio perché tante altre scoperte si potranno fare di dischi pubblicati nell’anno appena concluso e nessun vincolo impedirà di parlarne nelle prossime settimane o mesi, perché per fortuna la musica e le sensazioni da essa suscitate non hanno data di scadenza!

sufjan_stevens_carrie_and_lowellPotrebbe sembrare contraddittorio a quanto finora premesso affermare che il 2015 è stato senza ombra di dubbio “l’anno di Sufjan Stevens”, visto che il suo “Carrie & Lowell” campeggia in testa alle classifiche di numerose testate. Le ragioni possono essere molteplici, a cominciare dal fatto che si tratta di un disco estremamente personale e allo stesso tempo diretto, fatto di una sequenza di canzoni (davvero) una più bella dell’altra, frutto di semplicità espressiva ma anche di una misurata raffinatezza di orchestrazioni. A giovare a un risultato così stranamente condiviso vi è stata, ovviamente, la già consolidata levatura dell’autore, che unita alla straordinaria intensità dei suoni nuovi brani ha reso possibile una convergenza al giorno d’oggi altrimenti difficilmente configurabile. Non sbaglia dunque chi sostiene – quali che siano i significati di simile affermazione – che un risultato del genere non sarebbe stato alla portata di un identico disco firmato da un qualsiasi altro cantautore, magari scovato tra le miriadi di autoproduzioni delle quali pullulano piattaforme quali Bandcamp o Soundcloud. Anche in tale ipotesi, se da queste parti fosse stato intercettato, avrebbe ricevuto il medesimo trattamento, così come ora nessuno snobismo può indurre a non riconoscere in “Carrie & Lowell” è stato un disco palpitante, realizzato con gusto e sensibilità che lo collocano convintamente una spanna al di sopra qualsiasi altro disco del 2015 finora conosciuto.

chantal_acda_the_sparkle_in_our_flawsA seguire, l’ormai consueto nutrito gruppo di voci femminili, diverse per timbri e opzioni stilistiche, ma tutte fortemente caratterizzate: dal folk a tutto tondo di Kristin McClement, autrice di un debutto seguito a lunga gestazione (“The Wild Grips”) alla splendida conferma di Chantal Acda all’insegna della fragilità orchestrale (“The Sparkle In Our Flaws”), dalle narcolessie eteree e sognanti di Sara Forslund (“Water Became Wild”) alle contaminazioni ardite e riuscitissime di Colleen con culture musicali lontane (“Captain Of None”).
Dietro di loro, una lunghissima schiera di altre interpreti, che in campi più o meno distanti dal folk mostrano di poter assicurare grande linfa allo sfaccettato mondo del cantautorato al femminile, visto anche che si tratta nella maggior parte dei casi di giovani quando non di debuttanti assolute. Tra queste ultime, meritano una citazione Jenny Lysander, Marika Hackman, Soak, Rosie Caldecott, Aisha Badru, Julien Baker, Siv Jakobsen e Louise Le May, mentre conferme in qualche caso anche sorprendenti sono venute da Julia Holter, Jessica Pratt, Robin Bacior, Heather Woods Broderick, This Is The Kit, Adna, Weyes Blood, Siobhan Wilson e The Weather Station.

the_white_birch_the_weight_of_springForse meno stimolante, ma non per questo artefice in minor misura di produzioni di qualità, è stata la metà maschile del cielo cantautorale, che ha visto Barna Howard non mancare di dare, con “Quite A Feelin’”, un seguito di tutto rispetto allo straordinario debutto del 2012 ed Elephant Micah e Daniel Martin Moore offrire, rispettivamente con “Where In Our Woods” e con “Golden Age”, i lavori più maturi di discografie ormai consolidate. Ritorno evocativo e misterioso quello di In Gowan Ring in “The Serpent And The Dove”, denso di emozioni quello di House Of Wolves con le toccanti ballate di “Daughter Of The Sea”, il cui impianto cameristico fa il paio con la nuova manifestazione, dopo dieci anni di silenzio, di The White Birch nello splendido “The Weight Of Spring“.  Anche qui non sono mancati debutti assoluti o semplicemente solisti (David Allred, Martin Callingham, J.P. Riggall, David And The Circumstances, Calming River), a fronte di ormai assolute garanzie come quelle di Stone Jack Jones, Villagers e della consolidata nuova pelle di Jon DeRosa.

lightning_in_a_twilight_hour_fragments_of_a_former_moonL’indie-pop ha dimostrato ancora una volta di essere linguaggio fuori dal tempo, trovando i propri migliori artefici soprattutto in ambiti sotterranei. Se infatti Lightning In A Twilight Hour perpetuano l’agrodolce malinconia di Bobby Wratten e l’etichetta Matinée non manca di regalare un paio di delizie annuali (The Catenary Wires e The Hermit Crabs), le popsong più “intossicanti” recano firme di culti più o meno recenti quali Postal Blue, The Arctic Flow e Brideshead e delle piacevoli novità Finnmark!, Mallee Songs, oltre che della sempre più decisa transizione in tal senso dei Lorna e degli stessi The Innocence Mission, instancabili cantori della dolcezza, nonostante una carriera ventennale.

A proposito di band dalla lunga militanza, nessun segno evidente del passare del tempo hanno evidenziato le ultime prove di Low e Damon & Naomi e Yo La Tengo, che anzi non smettono di dimostrare una classe insensibile all’età.

rafael_anton_irisarri_a_fragile_geographyIl cospicuo lato sperimentale di Music Won’t Save You è stato alimentato da opere droniche monumentali e coinvolgenti, che hanno accorciato in maniera notevole le distanze tra rumore e atmosfera (Rafael Anton Irisarri, Chihei Hatakeyama, Jefre Cantu-Ledesma, Siavash Amini), e distillazioni ambientali purissime (Tiny Leaves, Benoît Pioulard, Slow Meadow, Bill Seaman, Spheruleus) in alcuni casi arricchite da un arioso afflato orchestrale (Christina Vantzou, From The Mouth Of The Sun, The Frozen VaultsEndless Melancholy). Gli intarsi minimali di Bamboo Stilts, The Sly & Unseen e il graditissimo ritorno di The Balustrade Ensemble hanno regalato bozzetti elettro-acustici di incantata bellezza, mentre il picking acustico è divenuto parte integrante della calda ambience di Western Skies Motel e Yadayn, rivestendo un ruolo pienamente analogo a quello del pianoforte e degli archi nei suggestivi lavori (più o meno) “modern classical” dei vari Jacob Pavek, Jacob DavidMoon Ate The Dark, Benjamin FingerRuhe, Goodbye Ivan, Olga Wojciechowska ed Emilie Levienaise-Farrouch.

the_silence_set_teeth_outAnaloghe intersezioni di linguaggi hanno caratterizzato i numerosi tentativi di innestare su tessuti sperimentali melodie vocali e, in qualche caso, vere e proprie canzoni. Ne sono stati tra i più lucidi protagonisti artisti provenienti da mondi sonori diversi, dal drone di Aidan Baker (“Half Lives”) al cantautorato “indie-tronico” di Mute Forest, dal drone-folk etereo di Anne Garner e Danielle Fricke al gotico orchestrale dei redivivi Revolutionary Army Of Infant Jesus, dal fingerpicking di James Blackshaw al minimalismo da camera di Hior Chronik e alle orchestrazioni di Richard Moult e The Silence Set.

the_declining_winter_home_for_lost_soulsIntersezioni consolidate, ma sempre molto particolari, sono quelle con il folk rurale o arcano proprie di una ristretta cerchia di artisti britannici, che nel 2015 hanno mostrato particolare creatività. È il caso delle contemplazioni bucoliche di The Declining Winter (due album e uno split nel corso dell’anno) e My Autumn Empire (un album e un mini acustico), dei ritrovati bozzetti strumentali di Vic Mars e, delle instancabili ricerche di tradizioni ancestrali condotte dal collettivo United Bible Studies, autore di ben tre dischi nel corso dell’annata.

giulio_aldinucci_spazio_sacroNon perché si tratti di una nicchia a sé stante, una trattazione separata la meritano le produzioni italiane che, sempre più numerose, hanno trovato spazio su queste pagine nel corso dell’anno. Produzioni ben distanti dal predominante mid-stream indipendente italiano, concentrate in particolar modo nel campo sperimentale e in quello del soundscaping (Giulio Aldinucci, Deison & Uggeri, Xu, Drowning In Wood, How To Cure Our Soul), nonché in quello ambientale e neoclassico (Bruno Bavota, Stefano Guzzetti, Lorenzo Masotto) che hanno ricevuto riconoscimenti anche attraverso la loro pubblicazione da parte di etichette straniere specializzate (discorso valido anche per il seducente debutto di Tullia Benedicta).

mouth_4_rusty_must_take_more_careInfine, anche quest’anno, sia consentito un piccolo riepilogo di proposte autenticamente caratterizzanti l’orgogliosa autonomia di Music Won’t Save You, quelle di dischi e artisti dei quali difficilmente si legge in altri luoghi. Oltre a molti tra quelli già citati, si possono elencare i vari The Leaf Library, Mouth 4 Rusty, Heirloom, Mountaineer, Hanging Up The Moon, St. Polaroid, The Last Morning Soundtrack, Wharfer, Albosel, Robin Adams, Homemade Empire, RayonsAdam Hayes, Good Shepherd, Robin Allender, Nighttime, Anders Brørby e tanti altri ancora tra i quali senz’altro i Red Trees, che anche grazie a un fortunato tramite proprio attraverso lo spazio loro dedicato su queste pagine sono riusciti a raggiungere la loro prima produzione ufficiale.

Si tratta dei frutti ritenuti più meritevoli di essere condivisi di una ricerca senza sosta, che in fondo costituisce la principale ragion d’essere di Music Won’t Save You: piccoli frutti raccolti per esclusivo piacere e grazie a tanto impegno, che possono dirsi maturi soltanto se, per loro tramite, anche una sola persona lì fuori avrà trascorso piacevolmente il breve volgere di una canzone che altrimenti non avrebbe conosciuto.
L’impegno si rinnova nel nuovo anno, in forme che cercheranno di essere quanto più agili possibile, proprio per offrire quanti più input alla scoperta e al piacere dell’ascolto.

Buon 2016!

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